Anno IV n° 22 Agosto 2014 una nuova ottica sul mondo Giornale mensile d’ informazione a carattere economico, culturale, giuridico, d’attualita’ e di costume Neuro Aberrazioni Non è la prima volta e non sarà certo l’ultima, che scrivo con l’intento di mettere in guardia dagli abusi nei confronti dell’essere umano da parte di una “scienza scientista”. Non smetterò di farlo finché non si determinerà una linea invalicabile di “non intervento”. Sembra stia parlando di guerra, vero? Un po’ è così, ma è una guerra particolare. Inizio riportando per intero un trafiletto tratto da “Sette” del 25 luglio 2014. LSD: LA RICERCA LO RISCOPRE Albert Hofmann, il chimico svizzero che scoprì l’Lsd e la psilocibina, credeva che queste droghe psichedeliche sarebbero state utili nel trattamento delle malattie mentali. L’azienda farmaceutica per cui lavorava, la Sandoz, inviò alcuni prototipi di farmaco a medici di tutto il mondo per la sperimentazione negli Anni 50 e 60. In seguito, però, l’uso farmacologico di queste droghe venne abbandonato e la maggior parte delle ricerche è stata fermata. La rivista scientifica Science rivela ora che neuroscienziati e ricercatori stanno riscoprendo le droghe psichedeliche per la loro capacità ineguagliata di modificare il modo in cui il cervello elabora le informazioni, e li stanno studiando come possibili trattamenti per www.capitolinoflash.it Incontro con Dario Argento Incontrare Dario Argento è un’esperienza interessante perfino per chi non ama particolarmente il genere horror. Noi abbiamo incontrato il regista romano all’Italian Horror Fest di Nettuno e lui si è raccontato con una franchezza disarmante mettendo a nudo anche il lato oscuro della sua personalità. All’Italian Horror Fest è stato mostrato il film cult del maestro del brivido: “4 mosche di velluto grigio”. E’ lo stesso regista a raccontarne la storia avventurosa post produzione: “La Paramount ed io avevamo i diritti d’autore del film, poi però ci sono stati problemi legali riguardo a questi diritti ed il film è letteralmente scomparso per 20 anni. Non è mai stato fatto vedere. Ad un certo punto però, non si sa come, una copia clandestina è segue a pag. 3 Cannabis: Marijuana e Hashish L’uso della marijuana e delle altre droghe “leggere”, danneggia la concentrazione, le registrazioni mentali ed il ricordo di immagini mentali precedentemente registrate. Queste droghe possono far svanire il senso di timidezza, possono far sentire disinibita la persona inibita, far sentire forte la persona debole, soprattutto nei confronti del sesso. La persona che fa uso di queste droghe ha un radicale cambiamento di personalità e perde l’ambizione nella vita. Il cambiamento di personalità La perdita di ambizioni è il punto di partenza: l’adolescente concentra la sua attenzione a questi strati di “benessere” e rinuncia a qualsiasi altro interesse come lo sport, la lettura dei testi scolastici, i suoi hobby. Uno degli effetti più ovvi del fumare la marijuana o hashish, è la stanchezza. Queste droghe dirigono verso l’interno o “interiorizzano” l’attenzione di una persona; il risultato è una persona che non è più in controllo dell’ambiente e delle persone che la circondano, ma perennemente con la “testa tra le nuvole”. Senza una dovuta attenzione, una buona memoria segue a pag. 3 Viale Parioli n.73 Roma Via Leopardi n.10 Milano Tel 06.80660055 Tel/Fax 02.468998 Fax 06.8086030 segue a pag. 2 Intervista all’architetto Arrigo Baj Siamo abituati ad abitare, ma non siamo abituati a riflettere sui retroscena che fanno da sfondo agli spazi ed alle dimensioni abitative. Apprezziamo le costruzioni estetiche, rinneghiamo le zone degradate, ci piacerebbe vivere in un paradiso terrestre, ma ci ritroviamo a condurre un’esistenza forzata in mezzo strade caotiche, sequele di case prive di alcuna integrazione estetica, e ci chiediamo come mai la sera invece di uscire per fare una passeggiata, preferiamo rinchiuderci in casa. Che cosa è successo all’universo architettura? Perché un tempo venivano realizzate maestose opere pregne di incomparabile bellezza, mentre oggi, pur essendo dotati di mezzi, materiali e tecnologie molto più avanzate, ci ritroviamo circondati da improbabili accozzaglie di mattoni? Cerchiamo la risposta nel termine architettura. La parola deriva dal latino architéktōn, vale a dire primo artefice. Suddividiamo il termine nelle due parti che lo compongono, àrchein e técton, e ci imbattiamo nella somma di due concetti a dir poco stupefacenti, vale a dire Dio come massimo valore e causa prima di tutte le cose e Inventare, creare costruire, plasmare a livello tecnico, artistico ed artigianale. Se è vero che Iddio ha creato questo pianeta, vediamo allora come un architetto d’eccellenza, Arrigo Baj, può creare il nostro sogno, il nostro universo soggettivo, la nostra casa. segue a pag. 3 Ricorderai questo giorno Ognuno di noi lo porta nel cuore. Io per esempio ricordo quel giorno di febbraio, perché legato alla mia domanda per entrare in Polizia. Ricordo bene che era mattino, ed avevo detto a mia madre che non sarei andato a scuola perché molti professori non erano presenti, ma che sarei andato a via Statilia, all’ufficio concorsi della Polizia, per fare domanda per far parte della Polizia. Dopo essere arrivato, in quella fredda giornata, ma tutto sommato bella climaticamente, notai subito volti un po’ tristi , qualcuno che parlava animatamente, altri che organizzavano non so quali servizi – per me allora sconosciuti – ma capii subito che non era una giornata tranquilla, per loro. Chiesi al Poliziotto alla porta, dove fosse l’ufficio e lui gentilmente mi diede l’indicazione. Entrando nel palazzo che si trova nel cuore di San Giovanni, tra antiche rovine, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme ed a pochi passi dal Colosseo, trovai segue a pag. 7 [email protected] Agosto 2014 Capitolino Flash 2 Attualità e Cultura segue dalla prima pagina Incontro con Dario Argento riuscita ad uscire dagli Stati Uniti, da quella copia ne sono state fatte delle altre, che sono passate poi di mano in mano e si è cominciato così a vederlo”. Il regista ammette che il film è molto autobiografico, che ci sono molte cose della sua vita e soprattutto c’è la rappresentazione delle allucinazioni che aveva in quel periodo, nel 1972. Comunque, “4mosche di velluto grigio”, Profondo rosso”, “Tenebre”,“La sindrome di Stendhal”, “L’uccello dalle piume di cristallo” è proprio vero che i film di Dario Argento hanno titoli affascinanti ad un punto tale che, per quanto riguarda “Profondo rosso”, per esempio, quel titolo piacque talmente tanto agli Americani che acquistarono il film senza neppure vederlo. Sul come nascono questi titoli, il regista non sa rispondere, semplicemente la cosa avviene. Pensandoci bene, il nome stesso del regista ha qualcosa di affascinante. L’unico film di Dario Argento che esce fuori da quelli che sono i suoi schemi abituali, quelli del genere horror cioè, è “Le cinque giornate”. Non era previsto che facesse questo film, doveva esserne solo il produttore. E’ stato poi Adriano Celentano, protagonista della pellicola a fargli cambiare idea quando gli ha detto: “ Ma se ti piace tanto, fallo te”. E così è stato. E’ stato bello lavorare con uno come Adriano. Non ci si annoiava di certo. Adriano aveva una personalità interessante. A quel tempo poi era capace di escogitare di continuo degli scherzi. La sera, invece, tirava fuori la chitarra e si metteva a cantare anche canzoni in inglese di cui non conosceva le parole. Si limitava semplicemente ad imitare quella lingua e lo faceva talmente bene che sembrava cantasse veramente in inglese. Per tornare a “Le cinque giornate”, che è del 1973, il regista aveva scoperto una piccola biblioteca a Milano in cui c’erano diari di persone che avevano vissuto negli anni descritti dal film e da questi diari ha preso molti spunti, ma soprattutto ha ottenuto un punto di vista completamente diverso su quel periodo storico. Ha riadattato poi storie o li ha reinventati e così ne è venuto fuori un racconto di protesta sul risorgimento, completamente anomalo rispetto ai film dello stesso genere di quegli anni. Pensate, il regista romano, in quella piccola biblioteca, è venuto a sapere, tra l’altro, che Carlo Cattaneo, uno dei protagonisti delle cinque giornate di Milano, aveva un cameriere che aveva partecipato all’insurrezione. Quando, finito tutto, questo cameriere è tornato a casa il Cattaneo lo ha bastonato perché per quel periodo non gli aveva preparato da mangiare e non aveva adempiuto a tutti gli altri servizi. Girare quel film è stata una bella esperienza, ammette il regista, peccato che non si sia ripetuta. E poi c’è stata la bellissima amicizia con Bernardo Bertolucci durata diversi anni. Li accomunava la stessa passione per il cinema e la stessa profonda conoscenza del cinema. E’ un’amicizia nata e consolidatasi nei ristorantini di Roma o passeggiando per le vie di quella città. Se il cinema, però, li ha uniti così li ha anche divisi visto che ad un certo punto uno è andato a fare un film da una parte del mondo ed uno da un’altra.“ Il western mi affascina, ma la commedia no” confessa poi Dario Argento. Come non credergli visto che la commedia è comunque agli antipodi del genere in cui è maestro riconosciuto a livello internazionale. Segue poi un consiglio da parte del regista a tutti i fans del genere horror: “Il cinema tailandese, coreano, ma un po’ tutto il cinema orientale è poco conosciuto, ma molto interessante. Hanno preso spunto dal mio stile che ha quel qualcosa di psicologico. Il cinema americano, invece, ha perso molto. Si è omologato. In America basta che un film abbia successo e se ne fanno subito 20,50 copie tutte uguali. La storia è diventata sempre uguale, fateci caso. C’è un gruppo di ragazzi che entra in una villa, succedono delle cose ed alla fine ne rimangono solo alcuni. Anche gli effetti speciali hanno contribuito all’omologazione. A me questa cosa non piace, io devo buttarmi ogni volta in qualcosa di diverso”. Alla domanda, invece, perché ricorre spesso alle siringhe per uccidere, il regista ha detto: “Si! E’ una paura inconscia. Uno dei miei incubi. Ne “La sindrome di Stendhal”, Asia veniva perseguitata da una siringa enorme”. Ad ottobre uscirà il libro del regista che non poteva che chiamarsi in un solo modo: “Paura”. E’ un’autobiografia da quando era bambino fino ad ora, non tralasciando nulla, neanche le sue storie di droga, i film facili e quelli difficili. Non c’è niente di inventato. E oggi? Dario Argento è felice?“Non sono ne’ felice, ne’ infelice. Questa è stata la mia vita”. Grazie Dario. Maria Luisa Dezi Capo redattore Capitolino Flash Iscrizione al Tribunale di Roma n° 246/2011 del 26.7.011 www.capitolinoflash.it [email protected]: Direttore Responsabile Dott. Michele Luigi Nardecchia EDITORE Ass. Culturale “Arte & Vita” Via Cairoli - Latina Presidente Avv. Goffredo Nardecchia segretario Claudio D’Andrea Claudio D’Andrea cell.330.860389 sito internet: www.claudiodandrea.it [email protected] Giornalisti - collaboratori Paolo Onorati, con il contributo di Riccardo Rosso, M.L.Dezi Fabrizio D’Agostino - Bernardo Dezi - Stefano Bonici - Emilia Kwasnicka- Manuela Baccari - Pina Orsini - Maria Luisa Dezi - Fernanda Arrigo - Ugo Meucci - Goffredo Nardecchia -Luca Bertucci - Consuelo - Elia Scaldaferri - Luciano Pecchi - Edoardo Elisei Federico Rocca - Giancarlo Coco avv. Marcella Coccanari Tipografia Della Vecchia Via Maira Latina Fondato da Membro Onorario Stampa 3 Capitolino Flash Agosto 2014 Cultura segue dalla prima pagina Neuro Aberrazioni depressione, dipendenza, ansia, cefalea a grappolo, e altri disturbi. “Ma questo”, conclude Science “rimane un settore controverso, e gli scienziati che studiano questi farmaci devono affrontare molte questioni problematiche”. Fra le “molte questioni problematiche” ce ne sarà certamente qualcuna di ordine “tecnico”, ma a noi interessano quelle di ordine ETICO: non ho percezione che le stiano affrontando e nessuna istituzione dice sostanzialmente niente! Dietro la “libertà alla ricerca” si celano ipocritamente interessi miliardari e di altro tipo, ad esempio “controllo sociale”, di un’industria farmaceutica che ha fatto perdere da un bel pezzo la vera missione alla medicina stessa. Ormai sono aziende che investono molto in marketing, solo interessate a mantenere e aumentare i pazienti; ecco perché penso che questo tipo di servizi debbano essere seriamente controllati se non statalizzati, allo scopo di armonizzarli finalmente ai nostri diritti umani. Ad aggravare il problema, che riguarda peraltro tutti i settori della ricerca farmaceutica, è proprio l’ambito qui interessato: il cervello. Un “quadro comandi” così complesso, sensibile e dotato di enorme plasticità a seguito di input psico-socio-cul-turali-alimentari, quindi determinata dall’individuo stesso, trattato al pari di altri organi nonostante la sua importanza, centralità e complessità. I signori “neuro-psico qualcosa” ci giocano irresponsabilmente, senza alcuna remora di ordine etico. Credo sia ora di far sentire a livello istituzionale la voce della cultura umanista, al fine di “contenere” e delimitare non certo la ri- cerca, ma almeno ogni tipo di applicazione diretta al centro del nostro essere biologico. Solo una cultura ecumenica e complementare in cui i vari saperi si integrino allo scopo di conoscenza, benessere e vero aiuto, sarà in grado di proteggerci dall’anni-chilimento della nostra identità e dalla perdita definitiva dei nostri diritti umani. Massimo Franceschini segue dalla prima pagina Cannabis: Marijuana e Hashish non si sviluppa e diventa molto difficile ricordare ciò che è stato registrato precedentemente. LA CANNABIS DA DIPENDENZA ED È UNA DROGA A TUTTI GLI EFFETTI Il recente allarme cannabis Ultimamente si sono registrati molteplici casi dove la continua e prolungata assunzione di cannabis (mesi e/o anni) ha provocato veri e propri cambiamenti mentali che potrebbero essere scambiati con vere e proprie psicosi. Nei casi più gravi è stata osservata una profonda irascibilità nei confronti dei familiari a volte sfociata nella distruzione di mobili e oggetti d’arredo. In altri casi addirittura i familiari riferiscono che il loro caro “parlava da solo” o “appariva completamente confuso” o sembrava in preda a manie di persecuzione. Questo potrebbe essere dovuto all’uso della chimica nella produzione della cannabis e alla continua selezione dei semi per rendere le piante più colme di principio attivo. A tutt’oggi ulteriori spiegazioni sono al vaglio degli inquirenti. Il falso mito delle droghe “leggere” L’informazione falsa che esistono droghe leggere e pesanti è stata sempre utilizzata dai consumatori per segue dalla prima pagina giustificare la propria condotta e dagli spacciatori per assicurarsi una maggiore diffusione e maggiori guadagni. Molti consumatori ormai dipendenti si giustificano dicendo che la cannabis è anche usata con successo per scopi terapeutici, oppure che è naturale e che non restituisce dipendenza. La verità è che una volta abituati ad utilizzare cannabis smettere è difficile in quanto quest’ultima genera dipendenza mentale. Di seguito riportiamo i principali cambiamenti fisici e mentali dovuti all’assunzione di marijuana e hashish. • Disenergia • Apatia • Stanchezza e sonnolenza • Testa perennemente “fra le nuvole” • Fame “chimica” (bisogno impellente di zuccheri e dolci) • Occhi arrossati • Difficolta di migliorare attraverso lo studio e l’esperienza • Difficolta di concentrazione • Mancanza di lucidità Per maggiori informazioni CHIAMA IL NUMERO VERDE 800 18 94 33 Narconon Intervista all’architetto Arrigo Baj Com’è nata la tua passione per l’architettura ed il design? Sono nato architetto. Mi ricordo che già dalle scuole elementari passavo ore ed ore a disegnare tutto ciò che mi circondava, tale passione non si è manifestata crescendo... io sono nato architetto. A quel tempo c’era una certa paura a far fare ai ragazzi il liceo, mio padre infatti mi indirizzò a studiare da geometra, questo perché se mi fosse passato il desiderio di studiare, avrei comunque avuto in mano almeno un diploma. Io volevo diventare architetto, ma a quel tempo in italia era in vigore una legge secondo la quale chi aveva il diploma da geometra, non poteva iscriversi ad architettura. Poteva però fare medicina! C’erano queste assurdità. Risolsi la cosa iscrivendomi a ingegneria, ma lo feci piangendo, non era quello che volevo realmente fare. Fortunatamente l’anno successivo cambiarono la legge, e siccome i primi due anni di ingegneria concidevano con i primi due anni di architettura, io al secondo anno mi trasferii alla facoltà di architettura. Non ho mai avuto il minimo dubbio riguardo al fatto che quella fosse la mia professione. La tradizione del design a mano libera, è forse una realtà in via di estinzione? Secondo me sì, perché l’università non te lo insegna. Attualmente si iscive ad architettura principalmente chi proviene da un liceo. Questi studenti però non hanno alcuna base di disegno a mano libera, e nemmeno all’università te lo insegnano, oggi in facoltà lavori solamente al computer, perché i tempi ti portano a questo. Chi ha fatto il liceo artistico è molto bravo a disegnare visi, statue, colonne o altro, ma non è stato insegnato loro a disegnare le case. Per cui con loro devi partire dalla filosofia insita nello scopo finale del perché fai una casa, vale a dire creare un ambiente nel quale tu vivi bene e del quale non puoi più farne a meno. Questo succede invariabilmente con i nostri progetti, e non è un qualcosa che si impara all’università. Bisogna avere il coraggio di mantenere le distanze dai compromessi, dai casamenti che per essere realizzati richiedono il nulla osta di personaggi tecnici caratterizzati da un indirizzo politico che ti viene imposto, privando così la grande opera della sua anima. Il risultato in questi casi è sempre che ciò che tu avevi progettato non verrà mai realizzato se non passandolo al setaccio di rilevanti compromessi, e questo non l’ho mai accettato e non è il mio modo di lavorare. Un altro sintomo del decadimento è che non si vedono più tecnigrafi in circolazione. Come si fa a progettare usando solo il computer? Io quando progetto inizio a disegnare a mano libera perché solo in tal modo la mia attenzione, la mia anima può essere concentrata nell’opera. Se progettassi col computer, la mia attenzione sarebbe giocoforza sul computer, non sull’opera. Quando creo a mano libera la mia mano traccia l’opera con immediatezza, in quella fase non è importante l’assoluta precisione delle linee, piuttosto è rilevante l’idea. Il precisionismo viene ottenuto al computer in una fase successiva, quando l’esecutore va a concretizzare l’idea originale. Nondimeno io, nelle mie realizzazioni, ho sempre perseguito l’abbattimento delle barriere architettoniche. Inizialmente, nell’intento di rendere le forme delle case fluide, non realizzavo case diritte, le realizzavo “storte”, con angoli aperti a 135°, traendo ispirazione dai grandi architetti del passato, poi col passare del tempo, ho reso miei alcuni concetti progettuali che, trasformando le forme e gli stili tradizionali, mi hanno permesso di realizzare case i cui interni sono dei “paradisi”. Architetto di professione, pianista per passione: una vita condotta all’insegna dell’arte e dell’armonia. Quale ruolo riveste secondo te l’estetica nel miglioramento della nostra civiltà? Fondamentale. Se tu sei in giro in auto e osservi una casa brutta od un palazzo brutto, ti cadono le braccia. Purtroppo è tutto comandato dalla politica. In Italia è pertanto molto difficile imporre un’architettura all’insegna dell’estetica, questo anche perché le imprese edili stesse vanno alla ricerca di geometri ed architetti poco costosi e quindi non necessariamente bravi, nondimeno vanno anche a modificare il loro progetto, ponendo dei tagli a tutto ciò che può sembrare non strattamente necessario. Ti ritrovi quindi con villette a schiera e palazzine indecenti che spopolano nei paesi e negli hinterland. Io non riesco a proporre un porgetto se a me non piace. Amo partire dalla funzionalità e poi, una volta risolta questa, garantisco l’estetica. Anche sotto questo aspetto non c’è nulla di scontato. Uno nasce esteta, nasce signore, non lo diventa e non è una questione di soldi. E’ una questione di esperienze, di cuore, di sensibilità, di relazioni sociali. A volte è necessario saper scegliere il giusto colore, il giusto accostamento. Solo con quello puoi completamente cambiar faccia all’opera. Io ho realizzato case bianche e case nere, e quando le ho fatte nere c’era un motivo ben preciso. E’ una questione di sensibilità... a volte mi scontro con i miei committenti, ma poi alla fine quando vedono l’opera terminata mi danno riconoscimento. L’estetica è ciò che ti fa vivere bene nel lungo termine. Il design invece è estemporaneo e segue la moda, fra pochi anni un design odierno potrà essere superato e scontato. L’estetica no, non invecchia mai. Quale prospettiva ci sta riservando l’architettura moderna? Una nuova età d’oro ed un rinascimento dell’estetica, o piuttosto una standardizzazione delle forme ed un decadimento dell’originalità? Decadimento dell’originalità non direi. I grandi architetti hanno un potere tale da riuscire ad imporre le loro idee. Questo è riscontrabile nei grandiosi grattacieli che vengono realizzati in tutto il mondo e che sono caratterizzati da una grande originalità. A me personalmente piacciono molto e sono ricchi di tecnologie ricercate. L’appiattimento si osserva invece nella realizzazione delle case comuni, quelle che vengono realizzate fuori dai centri storici. Ti ritrovi a combattere con personaggi che operano negli uffici tecnici che abbisognano di darsi un’importanza. Queste persone perlopiù non sono riuscite ad essere ciò che avrebbero voluto e quindi hanno ripiegato andando a lavorare negli uffici pubblici. Da quella posizione ti impongono le loro idee -che non sono idee- e sei costretto ad accettarle od a finire in contenzioso. E’ anche possibile realizzare un’architettura appiattita ma di buona qualità, tipo chalet con giardinetti e piscina, spazi ben vivibili. Ma non in Italia, qui questo non viene consentito, è come se tu venissi costretto a vivere in casa degli altri, in spazi non vivibili. L’appiattimento dell’architettura si tramuta poi in un appiattimento, conseguente, delle persone che andranno a viverci. In sostanza nella mia architettura lo scopo è realizzare il sogno della vita del cliente. Quando il cliente vede realizzato il suo sogno, lui si sentirà realizzato. Il problema di un architetto è farsi conoscere, molto spesso chi cerca un architetto in realtà non sa a chi rivolgersi. Non conoscendolo, non può sapere se è corretto affidarsi a lui. Un conto è essere realmente bravo, un altro conto è essere soltanto famoso. Ed esiste anche l’invidia e la gelosia. Non è detto che un cliente che si è trovato bene faccia passaparola. Temerà che in futuro tu possa fare all’amico una casa più bella di quella che hai fatto a lui. Nonostante tutte queste difficoltà, vale sempre la pena essere architetti e lavorare ogni giorno per tracciare con la propria fantasia i lineamenti di un mondo più bello. In fondo, è pur vero che i grandi architetti, come Le Corbusier o Wright, hanno raggiunto un potere tale da conseguire una fama mondiale e da allora non c’è più stato bisogno di chiamarli architetti. Edoardo Elisei Agosto 2014 Capitolino Flash 4 Attualità I tre naufragi del gatto Oskar C’era un gatto sulla Bismarck, la potente corazzata di Hitler, in quei giorni del maggio del 1941, quando a tutte le forze militari britanniche presenti nell’Atlantico venne dato l’ordine di darle la caccia, di trovarla e di affondarla. Ci riuscirono finalmente, dopo giorni di combattimenti ed inseguimenti, alle 10,40 del 27 maggio e quel gioiello della tecnologia tedesca, talmente possente che si pensava fosse imbattibile, si inabissò lentamente ma inesorabilmente al largo delle coste francesi. Degli oltre 2400 membri dell’equipaggio solo in 115 sopravvissero e vennero salvati dalle navi inglesi che avevano partecipato alla battaglia finale. Quando poi qualcuno notò il gatto aggrappato ad un’ asse galleggiante, fu la Cossack ad intervenire. Si avvicinò e lo issò a bordo. Fu subito accolto con affetto da tutti i marinai della nave nemica che, non conoscendo naturalmente il suo vero nome, lo ribattezzarono Oskar. Certo non è un caso che nel codice internazionale delle bandiere nautiche, alla “o” c’è quella chiamata “Oscar” che significa “uomo in mare”. Comunque, il gatto venne arruolato come cacciatore di topi ed iniziò a prestare servizio per la marina militare di Sua Maestà britannica. Passarono altri sei mesi e poi la Cossack venne a sua volta colpita da un siluro lanciato da un sommergibile tedesco mentre scortava un convoglio da Gibilterra fino in Gran Bretagna. La nave venne danneggiata irrimediabilmente ma si ebbe tutto il tempo di fare evacuare l’equipaggio e di salvare anche il gatto. Oskar ora venne affidato alla Ark Royal, un’altra delle navi che avevano partecipato alla caccia e distruzione della Bismarck, ma ormai lo chiamavano “Oskar l’inaffondabile” . Con questo nome continuò così a navigare nei mari insidiosi della seconda guerra mondiale per altre due settimane. Sì, perché fu allora che un altro siluro tedesco colpì quella nave e l’affondò. La nave si inabissò lentamente e così, pure stavolta, ci fu tutto il tempo di fare evacuare e salvare l’equipaggio. E Oskar? Si dice che lo trovarono aggrappato ad una trave e che era molto arrabbiato ma sano e salvo. A quel punto qualcuno deve avere pensato che tre naufragi per i nervi di un gatto potevano bastare e spedirono Oskar a Belfast, a casa di un marinaio, oppure qualcuno pensò bene di salvaguardare le navi della marina di Sua Maestà non permettendogli più di viaggia- re su una di esse. Lì , in Irlanda, visse per altri 14 anni. E’ una storia incredibile, vero? Se ne possono trarre di conclusioni, congetture e tante altre di queste cose ma sembra che tutta questa storia sia inventata: una delle tante leggende che i marinai si raccontano nei loro lunghi viaggi. Sembra di sentirli: “Sai che sulla Bismarck c’era un gatto? Sì! Te lo assicuro ed è stato salvato dai nostri”. ”Ma dai, non è vero! E come avrebbero fatto a trovarlo?” “ Pensa era su un legno che galleggiava vicino al relitto” e così via. Non ci sono, infatti, testimonianze o documenti o foto a comprovare che sia vera. Eppure, nonostante questo, il gatto è stato ritratto da Georgina Shaw Baker ed il dipinto è conservato nel National Maritime Museum del Regno Unito. L’artista ritrae un gatto bianco e nero seduto su una tavola che galleggia sulle onde e, nonostante avesse ritratto altri animali mascotte sulle navi della marina militare britannica, è ricordata soprattutto per questo ritratto. Nel dipinto il gatto ha gli occhi sgranati verso chi guarda il quadro. Sta forse osservando i marinai della Cossack che gli si stanno avvicinando? Maria Luisa Dezi Le navi dei naufragi di Oskar Ark Royal Cossack Oskar ritratto da Georgina Shaw Baker Bismarck 5 Capitolino Flash Agosto 2014 Cultura Gli appellativi di Re e Regine Scorrendo i testi di storia, è facile provare la sensazione che per lunghissimo tempo fosse quasi d’obbligo accompagnare il nome dei sovrani con un appellativo, talvolta motivato da una loro particolarità fisica, come “Il Breve”, “Il Lungo”, “Il Grosso”, o “Il Calvo”, assai più spesso da qualche aspetto saliente della loro personalità, oppure dalla grandezza delle loro gesta. In quest’ultimo caso l’antichità è il Medioevo pongono rispettivamente alla nostra attenzione il sovrano macedone Alessandro e Carlo, Re dei Franchi, fondatori di due sterminati imperi ed entrambi celebrati con il latineggiante Magno. In seguito, in epoche e Paesi diversi, altri monarchi hanno fruito del gratificante appellativo de “Il Grande”, Ad esempio Pietro, zar di Russia, e Federico, sovrano di Prussia. Molto ricorrente è anche quello de “Il Buono”, come pure “Il Magnanimo” e “Il Clemente”, e si giunse addirittura a definire “Il Santo” qualche Re che aveva preso parte alle Crociate in Terrasanta o combattuto gli arabi, insediatisi in vasti territori dell’Europa meridionale. Altri Re sono noti come “Il Semplice”, “Il Saggio”, “ll Fortunato”, “L’Ardito” “Il Perfetto”, denominazioni direi non disprezzabili, ma non è stato sempre così, Dato che ce ne sono di consegnati alla storia come “Il Fannullone”, “Il Neghittoso”, “Il Rissoso”, “Il Malo” e persino “Il Terribile” vale a dire lo zar russo Ivan, vissuto nella seconda metà del Cinquecento. Questo signore destava dell’ammirazione, in quanto abilissimo politico, ma nello stesso tempo incuteva un autentico terrore, considerato che soffriva di radicate manie di persecuzione ed era soggetto ad incontenibili accessi d’ira, durante i quali poteva arrivare al punto di uccidere chiunque. Neppure l’attributo “Il Bello” è stato trascurato ed io mi sono resa conto che l’hanno ricevuto più Re di quanto credessi. Il più famoso è comunque Filippo “Il Bello” di Francia, vissuto tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo. Fierissimo antagonista del Papa Bonifacio XIII, che gli lanciò contro la scomunica. Per nulla preoccupato del gravissimo provvedimento, Filippo non esitò ad incaricare dei suoi emissari di fare prigioniero il pontefice, Che si trovava ad Anagni: successivamente trasferì la sede papale in Francia, ad Avignone, e, già che era in vena di prodezze, soppresse anche lo storico Ordine dei Templari. A mio avviso, tra i tanti esistono degli appellativi che colpiscono in modo particolare, ad esempio quello di “Cuor di Leone” attribuito al Re inglese Riccardo 1°, vissuto nel dodicesimo secolo, al quale evidentemente non difettava il coraggio. il fratello che gli succedette, a quanto pare meno assistito dalla fortuna, l’abbiamo conosciuto come Giovanni “Senza Terra”, avendo egli perduto tutti i possedimenti inglesi in terra di Francia, ad opera di Filippo Augusto,Re di quel paese. In precedenza era vissuto un sovrano che di soprannomi, davvero eloquenti, ne aveva due: Guglielmo I chiamato “Il Bastardo”, essendo figlio naturale del duca di Normandia, e “Il Conquistatore”, Perché con fruttuose campagne militari era riuscito a conquistare l’Inghilterra, divenendone il sovrano. Nessun Re è stato comunque gratificato più del francese Luigi XIV, Il leggendario “Re Sole”. E’ fuori dubbio che il fasto della sua Corte fosse incomparabile, ma, a prescindere da tutto quello splendore formale, egli fu un sovrano assoluto e uno dei più guerrafondai della storia, tanto da spolpare la Francia. di celebrità in celebrità, senza peraltro allontanarmi dal suolo francese, sarei ora ben lieta di dire qualcosa di interessante su Napoleone, ma, mio malgrado, non sono riuscita a ricordare alcun appellativo di rilievo a suo riguardo, né le mie ricerche hanno dato frutto. E pensare che su di lui se ne sarebbero potuti coniare, nel bene e nel male, fin troppi, tutti più incisivi di quel banale “Il Còrso, con il quale, a causa della sua provenienza, a volte è denominato. Un po’ più tardi, sempre in Francia, incontriamo uno degli ultimi sovrani di quella nazione: Luigi Filippo di Borbone -Orleans. Cosa piuttosto rara in quei tempi tra i regnanti, egli era animato da idee abbastanza liberali, il che gli aveva fatto guadagnare il soprannome di “Egalitè”, cioè uguaglianza, ma, ironìa della sorte, perdette la corona proprio in seguito alla rivoluzione democratica del 1848. Per dovere di ospitalità ho lasciato per ultimi i sovrani italiani ed ora comincio da quello al quale, nella prima metà dell’Ottocento, fu attribuito il soprannome di “Re Bomba”. Alludo a Ferdinando secondo di Borbone, Re delle due Sicilie, che nel 1848 ordinò di bombardare la città di Messina in rivolta. Al figlio e successore Francesco II, con il quale ebbe termine la dinastia, Fu riservato invece il nomignolo di “Franceschiello”, certo da non andarne orgogliosi, ma almeno non inquietante come quello del violento genitore. So che i Savoia premono perché finalmente parli di loro, ma temo non resteranno soddisfatti. Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re del Piemonte ai tempi della per noi sfortunatissima Prima Guerra d’Indipendenza, È noto ai posteri come il “Re Tentenna”. Perennemente oscillante tra il restare fedele alla sua indole reazionaria o fare concessioni ai liberali e ai mazziniani suoi contemporanei, In bilico tra il comportarsi da sovrano assoluto o accogliere le giuste istanze dei sudditi, incline a una certa durezza ma anche alle crisi mistiche, per la sua indiscutibile ambiguità quel nomignolo così poco lusinghiero se l’era proprio tirato addosso. Dopo la cocente disfatta di Novara del 23 marzo 1849, egli abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele e si recò in esilio ad Oporto, in Portogallo, dove morì pochi mesi dopo. Il nuovo Re era assai più equilibrato del suo predecessore. Ambiva a raccogliere intorno al Piemonte il resto d’Italia e, favorito dalle circostanze, riuscì nel suo intento. Vittorio Emanuele II è caratterizzato dai prestigiosi appellativi di “Padre della Patria” e “Re Galantuomo”. Quest’ultimo pare se lo fosse meritato comportandosi con lealtà in un momento assai delicato. Dobbiamo ricordare che nell’Ottocento sovente i regnanti italiani promisero solennemente o anche concessero la Costituzione, allorché il loro trono vacillava, pronti però a revocarla quando la tempesta si era placata. Vittorio Emanuele, unico tra tanti lasciò invece in vigore la Costituzione, chiamata Statuto Albertino, che il padre Carlo Alberto, non per un intimo convincimento, ma perché costretto dagli eventi, dopo infinite titubanze aveva concesso al Piemonte nell’infuocato 1848. Suo figlio Umberto I fu di quei Re della storia ad avvalersi dell’attributo “Il Buono”. Se lo consideriamo con un po’ di attenzione, ci accorgiamo che fu valoroso soldato, ma non riusciamo davvero a comprendere il dove risiedesse la sua bontà. Autoritario e conservatore, Nel 1898 autorizzò a Milano nei confronti del popolo insorto una repressione, guidata dal generale Bava-Beccaris, che si rivelò oltremodo cruenta. Per ben tre volte fu fatto oggetto di attentati: due di questi fallirono, ma il terzo, attuato nel 1900 a Monza dall’anarchico Bresci, andò completamente a segno. Non avendo elementi chiarificatori il mio possesso, azzardo l’ipotesi che il soprannome di “Buono” gli derivi più che altro dal fatto che per mostrarsi vicino ai suoi sudditi, Tra il 1882 e il 1884 egli partecipasse personalmente alle operazioni di soccorso ad alluvionati, terremotati e colpiti da un’epidemia di colera in alcune regioni italiane. Ignoro se il figlio e successore Vittorio Emanuele III, il Re che spianò la strada al regime fascista, avesse un appellativo degno di nota. Probabilmente, magari in sordina, qualche nomignolo ingeneroso glielo avevano affibbiato, se non altro per la sua figura modesta e il carattere scontroso, oppure perché nutriva una passione sfrenata per la numismatica, nella quale si rifugiava come in una roccaforte ai tempi del suo tormentato regno. Dulcis in fundo: l’ultimo dei Savoia, e nel contempo l’ultimo Re d’Italia, suo figlio Umberto II, è ricordato come il “Re di Maggio”. Una denominazione poetica che, oltre ad indicare il mese in cui, avendo abdicato il padre, egli divenne Re, Sottolinea anche il brevissimo lasso di tempo in cui occupò il trono: solo il mese di maggio del 1946. In seguito al referendum istituzionale del 2 giugno, che instaurò nel nostro Paese la Repubblica, egli fu deposto e subito dopo, proprio come il suo avo Carlo Alberto, dovette prendere malinconicamente la via dell’esilio in Portogallo, senza poter mai più fare ritorno in Italia. Non posso concludere ignorando i sovrani in gonnella, il cui numero è ovviamente assai più contenuto. Andando molto indietro nel tempo, mi viene in mente la straordinaria regina Cleopatra, della quale si sono dette di “Cotte di crude” e che ancora suscita interesse, ma che non mi risulta abbia mai avuto un soprannome specifico. Procedendo attraverso i secoli, non mi accade di imbattermi in sovrane accompagnate da appellativi particolari, finché, addentrata ormai nell’Età Moderna, incontro la famosa Isabella detta “La Cattolica”, la regina castigliana detta protettrice di Cristoforo Colombo. Insieme con l’altrettanto cattolico marito Ferdinando d’Aragona, unificò la Spagna ma, adducendo motivi religiosi, commise l’errore di cacciare letteralmente da essa un bel numero di Ebrei e di discendenti dagli Arabi conquistatori, che vi risiedevano da tempo e che costituivano una componente assai attiva e produttiva della popolazione. Anche Giovanna, figlia di Isabella, c’è stata tramandata con un soprannome: meno rassicurante però. Si tratta di Giovanna “La Pazza”, madre del potentissimo imperatore Carlo V, quello sui cui possedimenti mai tramontava il sole. La poverina già in gioventù aveva dato segni di squilibrio psichico, ma il seguito alle alla dipartita del marito uscì del tutto di senno e trascorse il resto della vita rinchiusa in un palazzo, accanto al sepolcro del caro estinto. Sua contemporanea in Inghilterra la regina Maria “La Sanguinaria”, Figlia di Enrico VIII Tudor e di Caterina d’Aragona, che, nel tentativo di ripristinare nel suo regno la religione cattolica estromessa dal padre, usò contro chi la ostacolava dei metodi così brutali da giustificare il suo truce soprannome. Ora è la volta di presentare la sua sorellastra, quella Elisabetta I Tudor, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, che tanta parte ha avuto nella storia dell’Inghilterra. Elisabetta è conosciuta come “La Regina Vergine” perché, cosa veramente inusitata dell’ambito delle sovrane, non volle mai sposarsi. I suoi ministri e dignitari, per assicurare la discendenza al trono, più volte le proposero degli illustri personaggi, ma ella sempre tergiversava, opponendo infine un deciso rifiuto. Correva voce che si ostinava a respingere i pretendenti per un grave difetto fisico di cui era portatrice, ma gli storici più avveduti sostengono che, essendo costoro quasi sempre principi di altri Paesi Europei, la volitiva Regina non avrebbe tollerato ingerenze straniere nel suo regno. È il Settecento a proporci un’altra sovrana molto energica Caterina “La Grande”di Russia ma anche Maria Teresa d’Austria, permeata dalle idee della cultura dell’illuminismo, alla quale, in mancanza di un appellativo adeguato, potremmo accordare di nostra iniziativa quello di “Saggia”. Ora concludo davvero con la famosissima Regina Vittoria che, salita al trono d’Inghilterra nel 1837, appena diciottenne, regnò lungamente dando il suo nome ad un’epoca e meritandosi l’appellativo di “Matriarca d’Europa”. Ai nostri giorni Re e Regine sono diventati una rarità e il loro ruolo è profondamente mutato rispetto al passato. Dalle monarchie assolute, nelle quali tutti i poteri erano concentrati nelle mani dei sovrani, attraverso lo stadio intermedio delle monarchie costituzionali, ormai da tempo siamo giunti a quelle parlamentari, in cui il Re hanno un ruolo puramente formale: più che altro simboleggiano l’unità nazionale e non interferiscono nell’operato degli Organi dello Stato. Stando così le cose, la lunghissima era in cui i Re e le Regine venivano caratterizzati da appellativi più o meno lusinghieri, credo sia davvero tramontata. Consuelo ReginaVittoria Ivan il Terribile Elisabetta I (La Vergine) Luigi XIV Vittorio Emanuele II Agosto 2014 Capitolino Flash 6 Cultura John the f ireman Perringe Hill era una piccola comunità a sud di Londra, seimila anime affacciate sulla Manica. Il paese viveva intensamente attorno a se stesso; per la strada principale si incontravano, ad orari precisi, il carro del vecchio Fitzgerard il vaccaro degli Smithson che portava il letame tirato da un vecchio mulo; più tardi il camioncino del lattaio ed ogni tanto il vecchio agente Hangie Fordson che passeggiava facendo volteggiare il manganello nella mano destra. Se si passava poi attorno alle 8:15 davanti al “King Richard Pub” era facile vedere l’anziana Finnegan che raccoglieva il marito addormentato di fianco all’ingresso con in mano l’ultimo bicchiere e con in corpo alcool a volontà. Insomma un piccolo paese come tanti con i suoi personaggi, le sue avventure, le sue storie ed i suoi problemi. Nel Dicembre del 1939 viveva nella “Jank Road” il vecchio Robinson Hull, un veterano del 1914-18, prode soldato era tornato dalla Francia con la Victoria Cross dopo aver assaltato un trincea tedesca a Verdun. Padre di molti figli, i più si erano arruolati come allievi ufficiali nella RAF o nella Marina di sua Maestà. Gran disappunto provò il veterano quando John, il più scalcinato figliolo, fu rifiutato dall’esercito perché troppo giovane. Era il suo cruccio più grande ed il figliolo, un sacco d’ossa vestito e calzato, lo sapeva bene. La svolta di John avvenne la mattina in cui inforcata la bicicletta arrugginita e sverniciata di sua madre, si recò alla ricerca di un po’ di torba in campagna. Passando davanti alla stazioncina della Polizia notò all’improvviso un manifesto dai colori e dal messaggio intrigante. Non seppe resistere a quell’invito e pensò che se la patria non lo aveva voluto al fronte in Europa allora lo avrebbe tollerato in quello che i suoi compatrioti avevano battezzato l”home front”, il fronte interno. Dopo un paio di giorni giunse la convocazione attesa e lui corse a mostrarla al padre che sonnecchiava appresso al caminetto. Strappò un sorriso di compiacimento a quel vecchio soldato ed allora capì che il suo babbo ora era realizzato e fiero anche di lui. Nel cortile del municipio furono tutti allineati e un sottoufficiale panciuto spiegò loro il dovere di ogni ausiliario del nuovo “Auxiliary Fire Service”. John si avviò dopo qualche ora verso casa con l’intendimento di dare tutto se stesso al corso che l’attendeva. Spalancò la porta e sua madre restò pietrificata nel vederne la nuova figura. Due stivali di pelle nera e lucida salivano al ginocchio, una giubba doppio petto blu era stretta da una cinta con appeso il piccozzino. Al petto il fregio rosso con la scritta AFS PERRINGE HILL e la maschera antigas nella borsa appesa al collo. In testa un berretto rigido blu ed appeso alla borsa l’elmetto verde tondeggiante. Quelle ore di corso volarono e ben presto John incontrò la bestia, il fuoco. La casermetta fu ricavata in una rimessa del municipio. Vi trovavano posto le brande ed Leyland autopompa con scala a sfilo. Nella nebbia di una notte britannica alla porta bussò qualcuno con affanno e grande fu lo stupore nel vedervi il Fitzgerard con il suo odore di letame e stalla. I fari oscurati dell’autopompa correvano nella città spenta; verso il fienile che nel bruciare illuminava l’orizzonte come se l’alba fosse arrivata troppo presto per scacciare la notte. I tubi correvano verso le fiamme e le lancie abbattevano con getti d’acqua gelata il muro di fuoco. Nella aria si alzavano i fili di paglia e fieno che il fumo portava verso l’alto e poi lasciava ricadere, il crepitio delle fiamme era, per un giovane pompiere, come un il canto di una fascinosa sirena su uno scoglio. Ci vollero ore ma quei ragazzi volenterosi ebbero ragione dell’incendio e verso metà della giornata successiva già arrotolavano le manichette bagnate. Tornando John si guardò, poi s’annusò, come si sentiva grande con il volto annerito dal fumo e la divisa puzzolente ed impregnata dallo stesso. Era il loro primo vero incendio, ma era niente quello rispetto a ciò che i mesi successivi avrebbero voluto da loro. C’era una guerra, c’era il Maresciallo Goering oltre il mare, i suoi aerei voraci in attesa di distruggere Londra. Il paesello era in linea teorica sulla rotta che gli apparecchi della Luftwaffe avrebbero seguito verso la capitale e ritorno. Non ci sarebbe stato da stupirsi se, tornando indietro, si fossero alleggeriti, del carico rimasto, su di loro. La sirena antiaerea fu montata sul campanile della chiesa che s’affacciava sulla piazza. Quando qualcuno aveva avanzato l’idea di trasformare la cripta della chiesa in rifugio il reverendo Stanly, un anglicano di ferro, era piombato in municipio stizzito e spaventato. Poi il rifugio si fece nelle cantine dello stesso comune e la questione si chiuse con lo spirito diplomatico dei vecchi galantuomini britannici. Passò quasi un anno in cui John si formò come pompiere e come uomo districandosi tra gli interventi più disparati, come quando la vacca preferita dal Fitzgerard si perse nella foresta di Witmby. E venne così il periodo della guerra aerea del 1940, nelle notti il rombo degli Heinkel germanici scuoteva il paese e le bombe la prima volta fioccarono nella cittadina vicina dove un vecchio stabilimento produceva materiale per l’esercito. Alle due della mattina squillò il telefono del corpo ed il Leyland si lanciò verso la città adiacente ad aiutare i colleghi. Non c’era bisogno di nulla per arrivarvi, il bagliore dei tanti incendi che la sconvolgevano illuminavano il panorama d’un rosso intenso, tanto vivo quanto grande era la distruzione che seminava. Il colore quasi vivente si rifletteva nei loro occhi e le fiamme si vedevano lontane. L’autopompa mangiava celere gli ultimi tratti di strada sterrata che conducevano alla cittadina quasi come se il ferro ed il legno che la componevano avessero acquisito umana sensibilità e sentissero la drammaticità del momento. Lingue di fuoco si levavano in alto da ogni angolo della comunità e le ombre scure dei soccorritori si muovevano meccanicamente tra la foschia ed il fumo. Si trovò a metà della via, che avevano imboccato entrando, un ufficiale della brigata locale ed a lui si rivolsero per sapere dove andare. Fu una casa di fronte da cui si sentirono delle grida il luogo dove operare alla ricerca dei sopravissuti. Il crollo aveva lasciato integri pochi tratti delle mura perimetrali che tra l’altro erano ormai instabili e traballanti. Iniziarono a scavare con picconi e pale spostando travi e macerie fino ad ar- rivare vicino a quelle voci stanche e disperate. Poi gli arnesi divennero pericolosi e si dovette proseguire con le mani. Tale era la volontà, profonda e radicata, di salvare quelle vite che niente poté fermarli. Non si fermarono quando il sangue colò dai mille tagli che si erano procurati sulle palme delle mani, non si fermarono quando le macerie ancora calde ne ustionavano la pelle. Era una forza istintiva e misteriosa quella che li rendeva immuni al dolore, forti come buoi e resistenti come un antico guerriero gallese. Poi, dopo ore, finalmente quelle creature sfortunate furono restituite alla superficie, sottratte in una gara dura e spietata alla morte. C’erano tutti, i due genitori con i figli e l’anziano nonno, coperti di polvere, feriti e stanchi, ma vivi. I volontari civili, portarono via quella famiglia salvata da quei pompieri come tutti i pompieri quasi eroici, e dopo pochi secondi tutti quei mali che la forza della speranza aveva domato si impossessarono di loro. Qualcuno tossiva perché la polvere delle macerie ne aveva impregnato i polmoni, i più soffrivano per come si erano ridotti le mani. Le rinfrescarono con un poco di acqua fresca poi le bendarono alla meglio e dopo quasi quattordici ore di duro lavoro tornarono al paese. Nel percorrere la via del ritorno John ascoltava il dolore pulsante delle sue bruciature, ad ogni pulsazione egli pensava al battito vivo dei cuori di quella famiglia che le loro mani indaffarate e frettolose avevano riportato alla vita. Che gioia sentiva dentro, che dolce e misterioso senso di pace interiore l’avvolse al pensiero di aver fatto la propria parte in quella nobile azione. Passarono mesi, e l’uno dopo l’altro si sovrapposero e fecero gli anni che avevano condotto al ribaltamento delle sorti della guerra. Le armi segrete tedesche, verso la fine, avevano flagellato tutta la sua terra ed ora John che era un pompiere veterano aspettava come tutti di vedere la bandiera britannica a Berlino. Quando la guerra finì, egli salì passeggiando sulla collina che dominava Perringe Hill. Si accomodò su di una pietra ed accese la vecchia pipa che suo nonno aveva portato dal Belgio quando aveva preso quella palla di moschetto in una gamba a Waterloo. Guardava le macerie, le case integre e la piazza dominata dal campanile. Pensò a tutti gli incendi, a tutte le bombe, a tutto il lavoro che aveva fatto dal giorno in cui, ragazzetto, aveva vestito quella giubba blu. Poi aspettò che il sole pigro e sonnecchiante calasse lento dietro l’orizzonte. Guardò la luna farsi il suo spazio nel cielo ed accomodarsi tra le stelle e quando il rosa del tramonto lasciò il palcoscenico al buio della notte, lasciò la sua pietra e ripose in tasca la pipa ormai spenta. I suoi passi nella notte rimbombavano e riflessi dall’eco echeggiavano come un battaglione in marcia. Entrò in casa e posò il berretto sul tavolaccio, poi si gettò sulla poltrona e riempito il bicchiere sorseggiò un brandy tenuto sveglio dal russare incessante del vecchio padre e dal crepitio del fuoco nel caminetto che ancora ardeva in quella notte di tarda primavera del 1945. Il brandy rimise in moto la sua mente e finalmente capì la strana sensazione che provava. Nulla di così turbante se non la difficoltà a capire ed ad accettare quella realtà. Ma il titolone del giornale era lì sulla panca. La Germania aveva firmato e dopo quasi sei anni era finalmente scoppiata la pace! Alessandro Mella www.storiavvf.it 7 Capitolino Flash Agosto 2014 Attualità segue dalla prima pagina Ricorderai questo giorno subito l’ufficio attratto da quel desiderio, senza ulteriori indicazioni. Entrai nella stanza, chiesi il modulo dopo aver salutato tutto il personale in divisa, e mi dissero subito questa bella frase. “vuoi entrare anche tu a far parte della famiglia?” “Certo” risposi, con un pizzico d’orgoglio misto a timore reverenziale per quel mio futuro collega di lavoro. Dopo questo breve dialogo, egli aggiunse. “Ricorderai questo giorno!”. Per anni, dopo che prestai giuramento, ho ripensato a quella frase, che in quel momento sembrava un augurio, perché il dubbio che il collega voleva proteggermi da quel gesto mi è sempre rimasto. Una protezione, simile a quella che un genitore rivolge ad un figlio quando questi decide il suo futuro. Quel senso di vulnerabilità che assale un genitore perché il giovane vuole, desidera, si getta, tuffandosi in un mondo sconosciuto, che forse lo segnerà per sempre, ed un genitore non vuole che suo figlio sia segnato. Nessun genitore lo vuole. Ma come un figlio, testardo, incosciente, deciso, e sognatore, riempii tutti gli spazi di quel modulo e presentai la mia domanda. Presa la ricevuta firmata e timbrata, dal futuro collega, ed il classico “in bocca al lupo” riprendevo la strada di casa. Uscendo, dopo che avevo fatto vedere agli amici che mi avevano accompagnato la ricevuta e dopo un bel giro per Roma, rientrai a casa trovando il genitore non in divisa, a casa che piangeva mentre guardava la TV. Ricordo che era quasi l’ora di pranzo, ed il TG delle 13 era il primo che dava le notizie, il volto del giornalista che annunciava la notizia quasi guardava quello di mio padre che con le lacrime agli occhi ascoltava quella terribile notizia. “Questa mattina a Roma un commando delle Brigate Rosse, ha compiuto un attentato in via Prati dei Papa a Roma, uccidendo due poliziotti di scorta ad un furgone postale e ferendone gravemente un altro!” Secca, fredda, senza emozioni, la notizia usciva dalla TV, e si scontrava con la mia ricevuta in mano. Un pezzo di carta in cui vi era la mia felicità per un desiderio immenso, che veniva stracciato dalle parole di un giornalista pronunciate all’ora di pranzo del 14 febbraio 1987. Cosi mentre io andavo a via Statilia, deciso a fare la domanda per entrare in Polizia e d’accordo con i miei genitori che non sarei andato a scuola, a quella stessa ora due ragazzi con quella stessa divisa da Poliziotto che desideravo indossare, di 26 e 23 anni, venivano uccisi in strada ed un terzo ferito gravemente. Ricordo quel giorno, perché ognuno di noi Poliziotti per desiderio, volontà, amore per la divisa, conserva nel suo cuore il giorno che ha deciso di entrare. Come conserva il ricordo di quanti lo hanno preceduto e sono morti, caduti in servizio o no, perché appartenenti alla grande famiglia. Quindi fratelli. (Roberto Villani- Poliziotto ) Poliziotti.it Salute e peperoncino a Rieti Cuore Piccante. Consumato fresco, fonte di vitamina C. Chi apprezza la sensazione di “piccantino” sul palato, consuma il peperoncino quasi sempre nelle sue forme tritate ed essiccate, ignaro che, purtroppo, ciò comporta una fisiologica perdita sia dei suoi aspetti più squisitamente gustativi (profumo, sapore e aroma) sia di quelli più prettamente salutistici. Solo consumandolo fresco, infatti, è possibile beneficiare del suo valido contenuto di vitamina C. Questa e tante altre curiosità, compresa una mostra di pittura allestita presso il palazzo comunale e la presentazione del libro “La salute e il peperoncino” in cui vengono affrontati gli aspetti prettamente salutistici del Capsicum (nome scientifico del peperoncino), sono al centro della quarta edizione della manifestazione “Rieti Cuore Piccante” che si svolge a Rieti da oggi, giovedì 28, fino a domenica 31 Agosto. Gourmet e appassionati del gusto sono invitati all’evento che unisce, in un unico contesto, la Fiera Campionaria Mondiale del Peperoncino e la Mostra Mercato Prodotti Tipici al Peperoncino. Per l’occasione, tante le iniziative che riguardano “l’oro rosso della tavola”: il capoluogo reatino, infatti, si “vestirà” letteralmente di rosso per ospitare, nelle sue bellissime piazze, 400 varietà della specie Capsicum Annuum di peperoncino provenienti da tutte le parti del mondo. Il centro pulsante della manifestazione è ancora una volta il Palazzo Papale dove, grazie a un suggestivo allestimento, è possibile ammirare le forme e i colori delle varie specie di peperoncini provenienti da ogni angolo del mondo: Ghana, Honduras, Messico e Sri Lanka. Oltre a informazioni e degustazioni dei loro prodotti, i Paesi ospiti della manifestazione presentano spettacoli in cui si raccontano storia e tradizioni. Ma la manifestazione è anche un appuntamento goloso con oltre 100 stand espositivi presso i quali è possibile degustare e acquistare peperoncini e prodotti tipici al peperoncino; e, inoltre, mostre fotografiche, convegni, incontri, concorsi gastronomici, spettacoli con artisti nazionali e internazionali. Rieti Cuore Piccante è ideata e promossa dall’Associazione Peperoncino a Rieti, con la collaborazione dell’Accademia Nazionale del Peperoncino, dell’Ambasciata del Messico, degli enti locali, della Regione Lazio e del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. Dalla rubrica di Rosanna Lambertucci Agosto 2014 Capitolino Flash www.tecnovabuild.it Prossima apertura - Deposito Lazio in Giuliano di Roma (FR) Località Val Vazzata - Presso Agorè Resine by Level Srl 8 Concessionaria per il Lazio - S. Pirisi Srl Via E. Cecchi, 53 - 00137 Roma Tel. 337 804868 Email: [email protected]
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